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EXILE, RIENTRANO GLI HURTS

DiChristian D'antonio

Apr 4, 2013

Hurts_-_ExileAgli Echo Awards in Germania poche settimane fa hanno incontrato i loro idoli, i Depeche Mode a cui spererebbero anche di fare da supporter la prossima estate. Ma nell’intervista che ci hanno concesso gli Hurts, il duo electro pop di Manchester che è sulla breccia da soli 3 anni, hanno sciorinato ben altre influenze musicali.

«Ci piacciono Roy Orbison, Prince, le colonne sonore dell’americano Philip Glass e l’emozione della voce di Scott Walker – dice l’elegantissimo cantante Theo Hutchcraft – e per questo disco per la prima volta ci siamo resi conto che dietro di noi c’era gente che aspettava, che aveva il fiato sospeso. Eravamo attesi e abbiamo fatto un lavoro che si chiama Exile, che è il massimo della costruzione grandiosa che potevamo permetterci». Tanto che ora Theo con il fido tastierista Adam Anderson, che sembra uscito da un night dei tempi del Blitz Club londinese, sta pensando a un ulteriore progetto «che possa riportarci indietro all’essenziale, solo voce e piano per creare canzoni d’atmosfera».

Vero è che il talento dei due musicisti, nati negli anni 80 ben inoltrati, è stato dall’inizio accostato alla sapiente abilità di rifarsi ai primi anni della new wave senza “saccheggiare” a piene mani da quel filone. Nel disco, in brani come Sandman, Miracle e soprattutto Blind c’è l’estremo tentativo di svincolarsi da un percorso obbligato, quello dell’elettro pop europeo già segnato, e aprirsi a influenze diverse, molto americane si potrebbe dire. Ma il risultato è che gli Hurts ce la mettono proprio tutta a piacere al loro pubblico che vuole raffinatezze elettroniche e melodie vagamente malinconiche. Su tutto l’eleganza, anche nei suoni, mai strombazzati, anche dal vivo nella recente data sold out ai Magazzini Generali. Per gli Hurts si tratta di una seconda calata nel tempio della musica dance milanese e solo la concomitanza col concerto dei Litfiba quella stessa sera non ha favorito lo spostamento nel più capiente Alcatraz.

DSCN1295Non che i passaggi radiofonici dei nuovi singoli di Exile siano al pari degli inni del 2010 che li hanno lanciati – Better Than Love e Wonderful Life – ma questo la dice lunga sulla fidelizzazione che hanno saputo cementificare con il loro pubblico. Nello show milanese si respirava autentica passione per la loro musica da parte del rumorosissimo pubblico. Perché piacciono contemporaneamente agli adolescenti e ai palati fini dei nostalgici degli 80’s? «Perché non abbiamo paura di mostrare le cose belle della vita assieme alle cose brutte, sono tutte presenti nelle nostre canzoni. La melodia viene prima per noi, non si può separare dalla voce. Come accade nei dischi dei Depeche o nella pietra miliare per eccellenza per il nostro sound che è Ok Computer dei Radiohead». Chi li immaginava nottambuli a scopiazzare gli Human League resterà deluso. Dal vivo poi, nonostante il gesto galante di lancio di rose che lo avvicina al Bryan Ferry dei tempi d’oro, Theo è ancora più sicuro e avvincente che su disco. «Ho ascoltato molta musica vocale per prepararmi a questo disco, sono stato molto a pensare al significato dei testi. Abbiamo concluso che Exile è una parola che significa libertà ma anche disorientamento. Anzi ci metto anche un po’ di decadenza, visto che siamo stati in giro per 3 anni e poi ci siamo lasciati andare al silenzio. Ci sono molte cose che ci piace fare, ma in particolar modo l’immaginario che circonda il lato oscuro della vita è la nostra passione. E credo lo sia anche per i ragazzi che ci ascoltano». Cosa sarebbero gli Hurts senza la spruzzata dark che fa breccia tra i teen-ager? Ma non sembra un ingrediente di calcolo: «Il primo disco l’abbiamo fatto in maniera istintiva, molto diretto, ma anche molto emozionale. Ci siamo costruiti uno stile che vogliamo evolvere ma non stravolgere. È come il nostro amore per il nero dei vestiti Armani. È facile da mettere ma possiamo cambiarlo ogni volta che vogliamo».

Anche le ispirazioni, sottolinea Adam, si sono allargate con il tempo: «Ci piacciono gli Smiths e i Joy Division, entrambi istintivamente pensiamo a quel mondo quando componiamo. Ma i nostri pezzi sono anche ingluenzati dai gilm e dalla letteratura, siamo molto visivi quando scriviamo. Poi andiamo in tour e vestiamo i brani di ornamenti diversi. Ci teniamo alla tenuta dal vivo delle canzoni, vogliamo che siano molto potenti, ma stiamo attenti a non fare versioni aggressive». Oltre al piano album (ci perdoneranno la definizione spicciola) pensano comunque di fare il grande salto in America con un produttore di spicco in futuro. A chi pensano? Kayne West, Timbaland, The Neptunes, ci piacciono tutti e tre». Ambiziosi, sicuramente. E anche confortati dal fatto che proprio 30 anni fa sulle sponde americane atterravano acclamati i pionieri della second British invasion a cui in parte si ispirano. «Anche Lana Del Rey ci piace. È come noi, è attenta a non fare le mosse di nessun altro artista e ha voce in capitolo su tutto, dalla musica all’immagine».

CHRISTIAN D’ANTONIO

Christian D'antonio

Christian D'Antonio (Salerno, 1974) osserva, scrive e fotografa dal 2000. Laureato in Scienze Politiche, è giornalista professionista dal 2004. Redattore di RioCarnival. Attualmente lavora nella redazione di JobMilano e collabora con Freequency.it Ha lavorato per Panorama Economy, Grazia e Tu (Mondadori), Metro (freepress) e Classix (Coniglio Ed.)